Le metamorfosi di Mario Venzo pittore
Così, in breve e con una semplicità quasi disarmante, Mario Venzo tratteggia nel 1952 il senso della propria esistenza e della sua arte. Un’attività pittorica distesa lungo l’arco di sette decenni, fino all’estate del 1989: dal 1923 , data dell’intenso Ritratto della madre, – un’opera giovanile , ancora legata al verismo di tono ottocentesco ma realizzata con perfetta padronanza delle tecniche espressive – fino ai luminosi, ultimi dipinti del triennio 1987-1989, come Colori in collina, Omaggio floreale, Fiori in una caraffa, Il vecchio platano è vivo. Quest’ultimo porta un titolo non attribuito dall’autore, ma efficace ad esprimere la situazione umana e spirituale di Venzo ormai alla soglia dei novanta anni, in cui un robusto platano con i rami spogli, ma pronti a germogliare, si erge immerso nella luce brillante della primavera che accende i colori di un paesaggio collinare. Attraverso una vertiginosa trasfigurazione nella luce, nell’eccitata brillantezza del colore e soprattutto nel raggiungimento di una sorta di gioia profonda e rasserenata, si conclude in questi dipinti una lunga esistenza dedicata all’arte e alla vita religiosa.
Dopo il tempo della formazione a Venezia, il 1925 segna un passaggio decisivo, con il trasferimento a Parigi, che gli consente di conoscere l’intensa vita artistica della capitale francese e anche di parteciparvi. I primi anni sono molto difficili, ma fra il 1933 e il 1936 ottiene un buon successo. La sua è una pittura figurativa che si tiene lontana dalle avanguardie e si ispira all’eredità dell’Impressionismo, con un’evidente, anche se moderata, preferenza per Cézanne. Dipinti come Dalla finestra del mio studio, firmato orgogliosamente “mario venzo Parigi 36” e Mele, pere e frumento, dello stesso anno testimoniano di una stagione felice. Una produzione di qualità, ma non molto originale, per quanto si può giudicare sulla base del poco che oggi si conosce del periodo parigino, durato quasi tre lustri; una pittura che non può non tener conto anche delle esigenze commerciali e che non soddisfa a pieno Venzo; egli infatti ricordando quel periodo afferma: “non ero me stesso.. non avevo un mio stile”.
Ma proprio il raggiungimento del successo porta con sé il tarlo del disagio esistenziale: “La mia situazione, relativamente agiata e senza preoccupazioni, non bastava a riempire il vuoto, sempre crescente, del mio spirito”. Verso il ’35 prende avvio un mutamento profondo nell’animo di Venzo che di lì a qualche anno, dopo il rientro in patria nel 1939 in seguito allo scoppio della guerra, lo spinge a dedicarsi alla vita religiosa, pur sconsigliato in questo da uomini di Chiesa ai quali pare impossibile che un artista, ormai quarantenne e vissuto a lungo a Parigi, possa rinunciare alla propria libertà sottoponendosi alla disciplina di un ordine religioso. Ma Venzo persevera e nel 1941 viene accettato dai Gesuiti nel Noviziato di Lonigo come fratello coadiutore. Seguono anni difficili, in cui si dedica a mansioni ordinarie e a una severa pittura devozionale, richiestagli dai Superiori: sono i “quadri dell’obbedienza”, come egli stesso li definiva, non senza disagio, ancora molti anni più tardi. Fra essi merita di essere ricordato soprattutto il grande trittico su tela con Santa Teresa nel paesaggio di Lonigo, del 1942. Un genere di produzione che prosegue, sia pur con maggior serenità e in genere con esiti apprezzabili almeno per gli aspetti della tecnica pittorica, fin verso la fine degli anni Quaranta.
In questi anni il mutamento è radicale: per almeno un biennio, dal 1943 al 1945, cessa di dipingere. Come in Ignazio di Loyola, il fondatore della Compagnia di Gesù, anche in Venzo la conversione comporta un brusco e doloroso mutamento di vita in cui si rinnega il passato. Ma fratel Venzo verso la fine del 1945 riprende in mano i pennelli, confortato, poco per volta, anche dal consenso e dall’incoraggiamento di alcuni confratelli più attenti e sensibili. Riflette il raggiunto equilibrio e l’integrazione ormai faticosamente maturata fra vita religiosa e attività artistica l’Autoritatto come religioso e pittore; al punto che a Venzo è addirittura possibile, dopo il lungo “inverno” degli anni Quaranta, recuperare modi espressivi tipici del tempo francese, come nel gioioso Vaso di fiori sul davanzale, del 1948 firmato in rosso con il nome da religioso, fvenzo, accompagnato dalla sigla della Compagnia di Gesù, S. J (Societatis Jesu).
Nel 1948 presenta a Milano la sua prima mostra personale, che comprende una trentina di dipinti, a distanza di una decina d’anni dalle ultime esposizioni a Parigi. Gli anni intorno al 1950 e quelli di poco successivi vedono una produzione di discreto livello, ma non priva di incertezze, contraddizioni e oscillazioni di qualità. Comincia però a prevalere un orientamento moderatamente espressionistico, soprattutto nei dipinti di paesaggio; proprio in questo genere di pittura Venzo scopre la sua vocazione più autentica. Da questa complessa fase di ricerca della propria identità fratel Venzo esce fra il 1953 e il 1954, quando matura una vera e propria svolta stilistica, certo corroborata, come egli stesso riconosce apertamente dalla sensazione di libertà respirata nel corso di un soggiorno di nove mesi in Brasile, dove allestisce con successo due importanti mostre personali a Rio de Janeiro: all’Università Cattolica e al Museo delle Belle Arti. In questo periodo nasce la sua prima Via Crucis, la Via Crucis “mariana” del 1953 che inaugura un modo nuovo di trattare soggetti religiosi che erano condizionati da un’iconografia cristallizzatasi nel corso del tempo. Il linguaggio figurativo è di tono espressionista e si basa su arditi procedimenti di sintesi di forme semplificate e di colori accesi e pastosi.
Il mutamento di fratel Venzo trova una sorta di “consacrazione” critica nella bella monografia del 1962 pubblicata dal Centro Culturale S. Fedele, a Milano, dei Gesuiti, che contiene un saggio di Renato Giani, centrato proprio sull’espressionismo di Mario Venzo, insieme a importanti ricordi dell’artista “sulla sua vita parigina e religiosa”; infine una breve raccolta di giudizi sul pittore espressi da alcuni critici d’arte fra il 1950 e il 1961. Il volume pubblica esclusivamente quadri di paesaggio realizzati fra il 1957 e il 1961, ai quali vengono affiancati talvolta gli schizzi preparatori presi dal vero, con la registrazione dei colori, come era consuetudine di Venzo, che poi eseguiva i dipinti all’interno dello studio. Sono paesaggi dedicati, attraverso soluzioni formali e compositive molto elaborate e apparentemente tormentate, al paesaggio veneto e a quello dell’Italia meridionale, scoperto quest’ultimo durante un soggiorno estivo in Sicilia.
Al tempo compreso fra la metà degli anni Cinquanta e la metà degli anni Sessanta appartengono importanti dipinti, di proprietà della Compagnia di Gesù, fra i più significativi di quello che si può definire il suo “periodo maturo” perché segna il compiuto raggiungimento della propria identità d’artista, come Veneto-Lonigo (1954), Colli Berici a Lonigo (1958), Splendori di autunno. Lonigo (1965) e Campo arato (1965).
Nella vita di Mario Venzo un’altra svolta significativa avviene nel 1961, con il trasferimento dall’appartato e piuttosto chiuso ambiente della Casa dei Gesuiti di Lonigo all’Istituto Filosofico Aloisianum a Gallarate, della Compagnia di Gesù. Qui il pittore riceve ulteriore incoraggiamento da alcuni confratelli in grado di apprezzare il suo valore d’artista, fra cui, soprattutto, Padre Gian Vittorio Cappelletto, P. Alessio Saccardo e P. Luigi Pretto. È vicino ai giovani religiosi in corso di formazione, gode dell’amicizia di molti appassionati d’arte, di collezionisti lombardi ed estimatori; inoltre è vicino a Milano e ad un’ importante istituzione culturale dei Gesuiti come il Centro S. Fedele. In questo contesto più libero, ricco di opportunità e di promesse, Venzo opera a pieno tempo come pittore, incrementando le proprie esposizioni in Italia e all’estero. Sorretta da un entusiasmo infaticabile, la sua produzione non si attenua con l’avanzare dell’età, anzi cresce sempre più con una particolare dedizione al paesaggio e, specie dopo il 1970, anche alla natura morta; non viene naturalmente meno la realizzazione di dipinti di soggetto religioso, che rimane comunque minoritaria, ma che offre continue, intense variazioni formali e cromatiche sul tema del Cristo crocefisso.
Nel corso degli ultimi due decenni il colore trionfa nelle nature morte e nei paesaggi: dai toni freddi e inquietanti dei paesaggi colombiani alla sontuosa ricchezza cromatica di fiori, piante ed ortaggi, alle fantastiche evocazioni delle colline della Brianza, dei dintorni di Gallarate e di Varese, delle ondulazioni dei Colli Berici, degli ulivi del Meridione, delle rocce aspre, delle marine e degli scogli di Sicilia, Calabria e Sardegna. Un tripudio di colori, con una spiccata predilezione per i rossi, i gialli, i viola e i blu stesi con impasti preziosi, inimitabili, al contempo densi, luminosi e trasparenti, in una vertiginosa progressione espressiva che non conosce argini e che, anzi, negli anni ultimi approda a una sorta di serenità estatica, trasfigurata. È la gioia di un pittore e di un uomo di fede che rende un commosso e vibrante omaggio alla divina bellezza del Creato.